Umorismo di sostegno
PUBBLICAZIONE UMORISTICA FONDATA DALL'ACCADEMIA DEI CINQUE CEREALI IL 2 GIUGNO 2016
ANNO IX d.F. - IDEATO, SCRITTO, IMPAGINATO, POSTATO E LETTO DAGLI AUTORI E DA SEMPRE DEDICATO A FRANCO CANNAVÒ
Fondatore e macchinista: Paolo Marchiori.
Vicedirettori postali (addetti ai post): Stefania Marello, Christina Fasso, Italo Lovrecich, GioZ, il Pensologo Livio Cepollina.
IL TAPPO SIAMESE
El tappo unido jamás será separado.
(Canzone di protesta ecologica latino-americana)
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Il sistema del “tethered caps”, ossia dei tappi integrati con il recipiente, funziona già da anni nelle lattine in alluminio, da quando fu stabilito che la linguetta di apertura non deve essere strappata, ma aprirsi verso l’interno del contenitore. Qualcuno obiettò che in questo modo si beve anche la polvere, la sporcizia e le caccole di insetti che proliferano nei magazzini, ma ai fini ambientalisti non fu giudicato un problema. Anzi, l’eventuale trasferimento di batteri è considerato uno scambio vantaggioso per la tanto raccomandata biodiversità.
I grandi esperti di transizione green, tra una laude al cappotto termico e un inno all’auto elettrica, trovarono il tempo di pensare anche ai tappi delle bottiglie di plastica: stabilirono che essi non dovevano più disperdersi nell’ambiente da soli, perché restando uniti a mamma-bottiglia avrebbero inquinato di meno. Per adeguarsi a questa richiesta, qualcuno brevettò il sistema che oggi tutti conosciamo: il tappo di plastica legato indissolubilmente al recipiente. Bottiglia e tappo sono diventati gemelli siamesi: solo il bisturi del chirurgo potrebbe separarli.
Immagino che il progetto sia stato ideato da un ingegnere. Forse parente di quello che inventò il tappo a prova di bambino - che si deve premere e ruotare contemporaneamente - e che in seguito cadde in depressione, avendo scoperto che il nipote di otto anni apriva senza problemi il flacone del detersivo, ma il nonno aveva rinunciato alle gocce per la tosse, incapace di aprirne la boccetta.
Non ho nulla contro gli ingegneri, sia chiaro. Ho studiato molto anch’io, e so quanto lo studio possa rincoglionire.
Tuttavia, questo tappo è stato definito in vari modi dall’utenza; fra questi, “irritante” è il più educato. Quel tappo penzolante dal collo della bottiglia non solo rompe le scatole quando si beve, ricadendo sul naso, ma è anche difficile da posizionare correttamente per riavvitarlo. E se pensi di risolvere versando la bevanda nel bicchiere ti sbagli: il tappo maledetto scivola sotto il getto liquido, che schizza dove non dovrebbe.
Staccarlo è impossibile: ti sembra unito da un sottile e banale laccetto di plastica, ma quel laccetto è fatto con lo stesso materiale delle corde che reggono l’ascensore. Questo marchingegno è in gara per il concorso della migliore invenzione tira-moccoli dell’anno, e ha ottime probabilità di vincere.
Invece, nessun tappo siamese è previsto per i vini imbottigliati: il sughero è compostabile, e quindi ecologico. I produttori di vino, già oppressi da altre direttive europee nocive alle loro imprese, almeno da questa sono stati graziati.
Al momento, il provvedimento non ha coinvolto neppure i tappi di plastica degli spumanti, quelli che fanno il ‘botto’. Peccato: non sarebbe male se anche questi tappi potessero restare attaccati alla bottiglia, evitando di finire sul naso o in un occhio dei convitati. Forse l’ingegnere-del-tappo ha valutato e poi scartato l’idea: considerando tutte le forze in gioco, e la resistenza del laccio, c’è il rischio che il tappo parta comunque, trascinandosi dietro la bottiglia.
Tuttavia, avrei un suggerimento per il nostro genio incompreso: non sarebbe possibile applicare, mutatis mutandi, lo stesso laccetto alle crocchette per i cani, rendendole inseparabili l’una dall’altra, anche dopo essere state divorate e digerite dall’animale? Ogni cacca che oggi viene depositata sui marciapiedi resterebbe invece attaccata (avete capito dove) e penzolante, e potrebbe essere riportata a casa, dove l’amico del cane (e proprietario delle sue deiezioni, non dimentichiamo) potrebbe tagliarla con apposito strumento e gettarla nel water.
Non sarebbe anche questo un contributo alla pulizia dell’ambiente?

AUTO DA TIPORTO
Dopo le imbarcazioni da diporto, perennemente ormeggiate nei porticcioli a fare invidia ai poveracci che non se le possono permettere, presto avremo le auto da tiporto. La definizione corrente sarebbe “automobili a guida autonoma”, tuttavia, secondo i linguisti della pregevole Accademia dei Cinque Cereali, la definizione corrente non è quella corretta, poiché la parola ‘automobile’ è già di per sé comprensiva di autonomia di movimento. Lo conferma il vocabolario di latino, che traduce il lemma ‘automobile’ in ‘vehiculum se movens’. Ma - obietterà il lettore attento - come potevano gli antichi popoli italici di lingua latina conoscere le automobili? In realtà, essi avevano una discreta esperienza in veicoli semoventi, per esempio quando staccavano il carro dai buoi in una strada in discesa.
Invece, auto da tiporto è la definizione appropriata, poiché essa ti porta, anche se non hai la patente di guida, o se vuoi evitare la scocciatura di guidare nel traffico e parcheggiare. Farà le veci del coniuge premuroso che ti porta alla visita medica, o del figlio fresco di scuola guida e smanioso di dimostrare la sua abilità scarrozzando la mamma al supermercato.
Sono veicoli progettati per muoversi su strada in sicurezza, riducendo o eliminando del tutto l'intervento umano. Ma come fanno? - ci si chiede increduli. Utilizzano una combinazione di sensori, telecamere, radar, e soprattutto sono supportate dalla tanto discussa intelligenza artificiale.
Ma i più scettici non si fidano perché – dicono - il rischio è che l’auto da tiporto ti porti chissà dove, per un guasto, una interferenza con il satellite, o un temibile S.A. (un S.A. è un Sentimento Artificiale, un bug del software che lo rende troppo umano, e quindi inaffidabile). E se, giunta a destinazione, non ti aspetta per riportarti indietro? Le auto da tiporto saranno anche da riporto, come i cani dei cacciatori? O potrebbero abbandonarti in un quartiere sconosciuto della città, magari di notte? Se ne parla come di gioielli della tecnologia avanzata, ma per tecnologia avanzata si intende quella che è rimasta dopo aver creato il robottino che pulisce i pavimenti, taglia l’erba, ti misura la glicemia quando gli pare, e sigilla la porta del frigo se il valore è alto?
Nonostante le auto da tiporto siano ancora in fase di test, c’è già chi le disprezza e le snobba. Sono coloro che all’idea di non avere il volante fra le mani, e tre pedali agilmente governati da due piedi, vanno fuori di testa. Sono i maniaci del controllo della loro automobilina, magari acquistata a rate, che amano come e forse più della fidanzata, e che al volante si sentono piloti di formula uno.
Questi guidatori spavaldi sanno che ci sono cose che non si potranno fare a bordo di un’auto da tiporto, tipo imboccare una strada contromano, salire sul marciapiede per evitare la coda, o investire il ciclista che intralcia, ma nonostante i ripetuti clacson non si butta nel fosso per farli passare. Oltretutto, poiché è consentito l’uso del cellulare a chi non guida, svanirebbe ogni soddisfazione nel farlo, sfidando le forze dell’ordine. E il viaggio diventerebbe una noia mortale.

NATI COL DOLCEVITA
Da accreditate statistiche apprendiamo che la durata media della vita è ancora aumentata. Gli italiani non saranno longevi come i giapponesi, ma si difendono bene. Il problema è che non tutti invecchiamo allo stesso modo, mantenendo la salute e l’autonomia: per moltissimi anziani più che di lunga vita si dovrebbe parlare di faticosa sopravvivenza, tra acciacchi, invalidità, ospedalizzazioni e cure.
Abbiamo però rari casi di invecchiamento eccellente, e i media sono sempre pronti a parlarne, con dovizia di particolari e ottimismo esagerato. Uno di questi è un illustre ricercatore, noto a tutti per apparire in TV indossando sempre un dolcevita bianco sotto la giacca. Qualche malalingua afferma trattarsi del primo uomo ad essere nato, anziché con la camicia, con il dolcevita. Questo distinto signore si vanta di aver superato il novantaseiesimo compleanno in ottima forma. E non occorre che lo dica, basta guardarlo: invidiabile l’aspetto fisico, l’eloquio fluido e corretto, e quella “verve” disinvolta e colta, che la maggior parte di noi non aveva nemmeno a vent’anni.
Come sempre accade in questi casi, l’intervistatore si spertica in lodi e ammirazione, elenca i suoi successi, i suoi traguardi professionali, le sue numerose onorificenze, e infine pone la fastidiosa domanda: qual è il segreto di una longevità così attiva? Ormai lo sappiamo anche noi, i “segreti” di questi fenomeni di chiara fama sono sempre gli stessi: carestia nutrizionale, attività fisica regolare e intensa vita sociale. Non fumano, non bevono, quasi non mangiano, e lavorano ancora! Che avranno da rallegrarsi non si sa.
Anche l’arzillo professore col dolcevita afferma di mangiare pochissimo, di camminare ogni giorno per cinque (ha detto proprio cinque) chilometri, eppure trova ancora il tempo per recarsi al lavoro, partecipare ai convegni, e persino scrivere libri. Non usa ausili ortopedici, non ha bisogno di assistenza. Del resto, quale badante sarebbe disposta a scarpinargli accanto per cinque chilometri ogni giorno? Nonostante sia fondatore e presidente di un noto istituto di ricerche farmacologiche, il nostro super nonno non assume farmaci: non ne ha bisogno, beato lui. Se fossimo tutti così le ricerche sui farmaci sarebbero in crisi. Invece, sono diventate indispensabili grazie al gran numero di anziani che non sono nati né con la camicia né col dolcevita, ma affrontano i normali problemi dell’invecchiamento.
Non per polemizzare a tutti i costi, ma secondo me questo tipo di interviste è crudele nei confronti di milioni di vecchiette e vecchietti, meno fortunati o semplicemente normali. Basta guardarsi intorno, anche nelle nostre stesse famiglie e fra gli amici: la stragrande maggioranza degli over 90 cammina con difficoltà, subisce cadute e conseguenti fratture ossee, combatte ogni giorno con dolori articolari, malattie croniche o, peggio, demenza senile. E assume farmaci, tanti, ammalandosi ulteriormente di effetti collaterali.
Quanto ai rapporti sociali così raccomandati i novantenni del mondo reale sono fortunati se riescono a scambiare due parole con la vicina di casa o con il finto carabiniere che sta cercando di truffarli. Se ancora abitano a casa loro e non in qualche squallida RSA, escono solo per fare la spesa, oppure si trascinano col deambulatore fino alla bocciofila; guardano qualche demenziale programma televisivo, con i sottotitoli, perché gli apparecchi acustici costano cari per chi deve contare soltanto sulla pensione. Se hanno figli e nipoti che vanno a trovarli non sanno che cosa dire a causa del divario enorme di età, linguaggio, culture e opinioni: si limitano a guardarli smanettare tutto il tempo con lo smartphone.
Evidenziare certe situazioni privilegiate, dovute a combinazioni genetiche e sociali particolarmente favorevoli, è scorretto: un po’ come se i grandi ricchi del pianeta si vantassero in TV dei loro successi e del loro patrimonio, e si arrogassero il diritto di elargire consigli ai poveracci.
Cosa? Ah… lo fanno veramente?

APPARECCHI PER I DENTI E APPARECCHI PER NON UDENTI
Se osservate sul libro di storia le illustrazioni che rappresentano l'uomo di Neanderthal o di Cro-Magnon (ominidi vissuti prima della comparsa dell'Homo Sapiens) notate che il cranio era molto diverso da quello dell'uomo moderno, e in particolare la mandibola era più robusta e prominente. Quando dico “uomo” intendo ovviamente anche la donna: anche le ragazze di Neanderthal e Cro-Magnon dovevano avere mandibole notevoli, e con ogni probabilità, già nella preistoria sfoggiavano sorrisi smaglianti per sedurre quei boccaloni dei loro compagni di caverne.
Lo sviluppo delle ossa mandibolari dipende dall'alimentazione. Le popolazioni primitive, che non conoscevano le moderne tecniche di cottura, e non avevano neppure i McDonald’s, pur di riempirsi la pancia mangiavano di tutto: radici, cortecce degli alberi, ossa di mammut dure come sassi, e persino i sassi, se avevano un buon sapore. Non per niente li chiamarono Magnon.
Nel corso dei millenni, l'alimentazione umana è cambiata: i bambini non hanno più necessità di rosicchiare ossi di pollo, né di sgranocchiare carote crude, o mele con la buccia e il torsolo. Così, le mandibole si sono ridotte e indebolite e, caduti i dentini da latte, quelli permanenti non trovano spazio: permangono, sì, ma storti, accavallati, o addirittura in doppia fila come quelli degli squali.
Per correggere questi difetti fu inventata l'ortodonzia, che non c'entra nulla con l'orto della zia, ma è la scienza che si occupa di riallineare i denti, per una masticazione corretta e un miglior risultato estetico.
Negli anni Cinquanta comparvero i primi dispositivi, detti apparecchi. Erano ingombranti e fastidiosi, esteticamente orrendi, ma facevano il loro lavoro: nel giro di due o tre anni riuscivano a riallineare anche i denti più ribelli.
Grazie al maggior benessere, sempre più famiglie potevano permettersi di pagare le cure del dentista. E grazie a un fisco indulgente, sempre più dentisti potevano permettersi l’auto di lusso e la barca ormeggiata a Rapallo.
Anche la mia amica Abeffarda, che è nonna e naviga ormai oltre la settantina, da bambina dovette sperimentare l’odiosa “macchinetta”. La sua mamma la accompagnava ogni settimana al controllo del dentista, un certo dottor Amoroso, che di amoroso non aveva un bel niente, anzi, era piuttosto severo e antipatico.
– Non l’hai messo abbastanza – la rimbrottava – devi portare l’apparecchio notte e giorno.
Ma era un supplizio: con quel coso in bocca non riusciva a parlare bene, più che altro farfugliava. Così se ne stava zitta, cosa per lei difficilissima. Quando a scuola era chiamata per l’interrogazione, prima di alzarsi dal banco sputava l'apparecchio nel fazzoletto (forse già usato per soffiarsi il naso), e se lo ficcava in tasca, insieme alle briciole della merenda. Igiene garantita: altro che guanti sterili e igienizzanti per mani! Insomma, fu un triste periodo: lei era immusonita e ribelle, e i suoi genitori erano depressi per i costi sostenuti; solo la maestra era contenta, perché i bambini con l'apparecchio erano più silenziosi e disturbavano meno la lezione. Una volta, all’ora della ricreazione, aveva fatto cambio con l'apparecchio di una compagna, così, per provare se fosse meno fastidioso. Ma… niente, le faceva male anche quello. Ma mai come il ceffone che le diede la mamma quando, al ritorno da scuola, scoprì l'ignobile scambio.
Oggi tocca al suo nipotino, ma l’ortodonzia si è evoluta. L’apparecchio di suo nipote si mette solo durante la notte ed è costituito da morbido silicone: sembra una grossa vongola scivolosa, e come tale scivola in bocca senza problemi.
Così, nelle sere in cui il nipotino dorme dalla nonna, prima di spegnere la luce c'è il rito degli apparecchi: lui toglie la vongola dall'astuccio e se la infila in bocca, lei (che è piuttosto sorda) si toglie gli apparecchi acustici e li ripone nell'astuccio. Entrambi devono stare attenti a non sbagliare astuccio, che Dio solo sa che cosa potrebbe succedere.
Se il bambino non si addormenta subito, ma si ostina ancora parlare si scatena una tregenda: lui, con la vongola in bocca, riesce solo a farfugliare; lei, senza l'ausilio acustico, sente poco e non capisce un accidente. Così lui ripete a voce sempre più alta, fino a gridare parole incomprensibili, e lei continua a strepitare: "Eh?... Cos’hai detto?" al limite della disperazione.
Alla fine, urlano così forte che nemmeno la vicina, al di là del muro, riesce ad addormentarsi.
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Stefania Marello - ACC

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