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Umorismo di sostegno

PUBBLICAZIONE UMORISTICA FONDATA DALL'ACCADEMIA DEI CINQUE CEREALI IL 2 GIUGNO 2016

ANNO IX d.F. - IDEATO, SCRITTO, IMPAGINATO, POSTATO E LETTO DAGLI AUTORI E DA SEMPRE DEDICATO A FRANCO CANNAVÒ

Fondatore e macchinista: Paolo Marchiori.
Vicedirettori postali (addetti ai post): Stefania Marello, Christina Fasso, Italo Lovrecich, GioZ, il Pensologo Livio Cepollina.

CERA UNA VOLTA

Il tempo delle cere


Negli anni cinquanta e sessanta i pavimenti degli appartamenti di città erano in graniglia, oppure in marmo e in legno nelle abitazioni più lussuose. In tutti i casi si lavavano e poi si lucidavano a specchio con la cera. La maggior parte delle mamme erano casalinghe, fissate con la pulizia e il decoro. "Fare bella figura" con gli ospiti era il loro obiettivo principale, poco importava se gli ospiti erano sempre gli stessi, cioè la vicina di pianerottolo per il rito del caffè, e la suocera e la cognata in visita la domenica. Perciò la casa doveva essere impeccabile e i pavimenti tirati a lucido.

La lucidatrice era quell'oggetto inquietante che ogni casalinga custodiva nel ripostiglio o sul balcone. Era dotata di svariati tipi di spazzole, che si dovevano utilizzare, in passaggi successivi, sul pavimento lavato e incerato a dovere. Era un arnese solo in apparenza disanimato. Quando si collegava la spina alla presa di corrente, la lucidatrice acquisiva una mostruosa vita propria: si illuminava, emetteva un rumore infernale e, mentre il sacco per la raccolta della polvere si gonfiava come una mongolfiera, essa iniziava a girare su se stessa a causa del moto vorticoso delle sue spazzole. E solo una casalinga esperta e ben allenata riusciva a dominarla e a sottometterla al suo volere.

Ricordo che, dopo che mia mamma aveva lavato, incerato e lucidato i pavimenti, la casa assumeva una dimensione sacra. Arrivando da fuori ti rendevi subito conto, dall'odore e dalle pattine schierate in attesa all'ingresso, che erano state effettuate le grandi manovre. Perciò entravi con circospezione, quasi come in un santuario: infilavi le pattine e ti avviavi strisciando i piedi, come uno sciatore di fondo in salita e senza bastoncini, fino al ripostiglio, dove era d'obbligo togliersi le scarpe e infilarsi le ciabatte. Se fuori pioveva o nevicava le scarpe le dovevi togliere sullo zerbino e lasciare sul pianerottolo, insieme all'ombrello. L'operazione non era semplice, specie se eri impacciato dall'impermeabile e dai guanti, e richiedeva una certa agilità e notevoli doti di equilibrio.

Su quel pavimento si sarebbe potuto mangiare senza dover utilizzare i piatti: non c'era una briciola, un'ombra, un alone; la polvere e i suoi migliori amici, gli acari, giacevano sconfitti e agonizzanti, risucchiati dentro il sacco. Tutto era sterile, terso, splendente.

Noi figli subivamo senza protestare l'obbligo delle pattine, la rumorosità invadente dell'attrezzo che sovrastava l'audio della TV dei Ragazzi, le raccomandazioni a raffica di mamma, di non sgocciolare vicino al lavello, di non camminare con le scarpe e di non sbrodolare a tavola. Accettavamo le sue rampogne in caso di errore.

E anche i padri accettavano le pattine senza discutere. In fondo era un piccolo scotto da pagare per avere riconosciuti i loro diritti a non dare una mano nelle faccende domestiche, a non occuparsi dei figli e della spesa, a dedicarsi soltanto al lavoro e alla carriera. E a coltivare il loro unico sogno: un cospicuo aumento di stipendio che rendesse possibile cambiare l'automobile con una più grande e potente.

E se la moglie non fosse stata d'accordo? Per ammansirla bastava regalarle il nuovo modello turbo di lucidatrice tedesca, extra piatta per infilarsi meglio sotto i mobili, con più spazzole e lo speciale accessorio per la perfetta lucidatura degli angoli.


Nonna Abeffarda







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