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Umorismo di sostegno

PUBBLICAZIONE UMORISTICA FONDATA DALL'ACCADEMIA DEI CINQUE CEREALI IL 2 GIUGNO 2016

ANNO IX d.F. - IDEATO, SCRITTO, IMPAGINATO, POSTATO E LETTO DAGLI AUTORI E DA SEMPRE DEDICATO A FRANCO CANNAVÒ

Fondatore e macchinista: Paolo Marchiori.
Vicedirettori postali (addetti ai post): Stefania Marello, Christina Fasso, Italo Lovrecich, GioZ, il Pensologo Livio Cepollina.

LA MOSCA COCCHIERA IN PILLOLE

IN PILLOLE

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Perché i viaggi di ritorno sembrano più brevi di quelli di andata? C’è un motivo scientifico, dietro questa illusione. Traffico a parte, non è vero, non è dimostrabile. C’è una spiegazione scientifica, soprattutto in estate. Il fenomeno si verifica quando partiamo per le vacanze, o nei brevi weekend. Il ritorno puù sembrare più rapido, perché abbiamo imparato la strada, ma non è vero. Gli scienziati hanno dimostrato che è un inganno della mente con tre esperimenti, condotti in Olanda e negli USA. Quello che viene definito “effetto del viaggio di ritorno” è una sensazione che ci fa percepire il ritorno più breve del 17-22% rispetto all’andata, anche se i due tempi sono identici. La percezione errata si verifica anche se il viaggio di ritorno avviene su un percorso diverso, dimostrando che dipende dalle nostre aspettative e non dalla tratta effettiva. Perché? All’andata, l’eccitazione di arrivare ci porta a sottovalutare la distanza da percorrere e il tempo sembra allungarsi. Al ritorno adattiamo le nostre aspettative in base al percorso da completare, rendendo le previsioni più realistiche. Tuttavia, i pendolari non cadono in questa trappola. I tre esperimenti confermano che l’effetto si verifica nei viaggi in autobus, in bicicletta, quando osserviamo video di altri in viaggio, ma si attenua durante i viaggi frequenti come quelli dei pendolari: la ripetitività dei tragitti porta aspettative più accurate sulla distanza da percorrere. Il Professore Chiarissimo Sun Nen Bun, Dipartimento Torrazzese dell’Università di Pensologia di Torino: “Ma puoi evitare queste pippe mentali restando a casa tua”.

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Meglio guadagnare meno, ma vivere di più. Il Global Re:work Report 2023 di Kelly, società di cacciatori di teste, dice che in Italia un lavoratore su tre pensa di lasciare il lavoro entro un anno perché scontento delle condizioni in cui lavora. Non è una questione economica: è la ricerca dell’ambiente di lavoro ideale in termini di qualità della vita. Si cerca l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Chi vuole andarsene lamenta lavoro in eccesso, i team con risorse insufficienti e la sensazione di lavorare in emergenza. Tra chi resta, un terzo lo fa per senso di sicurezza psicologica; quasi metà fa il Quiet quitting, le cosiddette “dimissioni silenziose”: fare il minimo per il proprio ruolo. Molti non se ne vanno per senso di appartenenza alla propria azienda. Il Professore Chiarissimo Sun Nen Bun, Dipartimento Torrazzese dell’Università di Pensologia di Torino: “Tante belle parole, ma io invidio il mio caro amico Carlo Chievolti: a 40 anni ha buttato la biro, dicendo che lascia il lavoro a chi ha bisogno”.

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Chi abita in campagna rischia di più di cadere in depressione. Dalla Danimarca arriva uno studio, pubblicato su Science Advance, dedicato a individuare i principali fattori che influiscono sul benessere psicologico, al fine di progettare meglio le città del futuro. A sorpresa, non ci sarebbe alcuna connessione tra l’alta densità abitativa dei centri delle città e l’aumento dell’incidenza della depressione. Le aree dove si è più esposti a problemi mentali sarebbero le periferie a media densità abitativa, dove ci sono villette con giardino. Spiegazione: chi abita in periferia ha tragitti più lunghi per arrivare al lavoro in città, non ci sono spazi votati all’aggregazione, oppure non sono sufficienti a permettere l’apertura di locali e bar nei quali si possa socializzare. Il Professore Chiarissimo Sun Nen Bun, Dipartimento Torrazzese dell’Università di Pensologia di Torino: “Abito in un villino col verde tutt’intorno e lo preferisco a un alloggio con vista su palazzi e cassonetti. Ma cosa ne sanno ’sti danimarchesi?”.

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