Stacks Image 2

Umorismo di sostegno

PUBBLICAZIONE UMORISTICA FONDATA DALL'ACCADEMIA DEI CINQUE CEREALI IL 2 GIUGNO 2016

ANNO IX d.F. - IDEATO, SCRITTO, IMPAGINATO, POSTATO E LETTO DAGLI AUTORI E DA SEMPRE DEDICATO A FRANCO CANNAVÒ

Fondatore e macchinista: Paolo Marchiori.
Vicedirettori postali (addetti ai post): Stefania Marello, Christina Fasso, Italo Lovrecich, GioZ, il Pensologo Livio Cepollina.

IMPARTISCE L’ESTREMA UNZIONE CON OLIO CINESE, IL MORIBONDO SI RIPRENDE

IL TAPPO SIAMESE


El tappo unido jamás será separado.

(Canzone di protesta ecologica latino-americana)

.

Il sistema del “tethered caps”, ossia dei tappi integrati con il recipiente, funziona già da anni nelle lattine in alluminio, da quando fu stabilito che la linguetta di apertura non deve essere strappata, ma aprirsi verso l’interno del contenitore. Qualcuno obiettò che in questo modo si beve anche la polvere, la sporcizia e le caccole di insetti che proliferano nei magazzini, ma ai fini ambientalisti non fu giudicato un problema. Anzi, l’eventuale trasferimento di batteri è considerato uno scambio vantaggioso per la tanto raccomandata biodiversità.


I grandi esperti di transizione green, tra una laude al cappotto termico e un inno all’auto elettrica, trovarono il tempo di pensare anche ai tappi delle bottiglie di plastica: stabilirono che essi non dovevano più disperdersi nell’ambiente da soli, perché restando uniti a mamma-bottiglia avrebbero inquinato di meno. Per adeguarsi a questa richiesta, qualcuno brevettò il sistema che oggi tutti conosciamo: il tappo di plastica legato indissolubilmente al recipiente. Bottiglia e tappo sono diventati gemelli siamesi: solo il bisturi del chirurgo potrebbe separarli.


Immagino che il progetto sia stato ideato da un ingegnere. Forse parente di quello che inventò il tappo a prova di bambino - che si deve premere e ruotare contemporaneamente - e che in seguito cadde in depressione, avendo scoperto che il nipote di otto anni apriva senza problemi il flacone del detersivo, ma il nonno aveva rinunciato alle gocce per la tosse, incapace di aprirne la boccetta.


Non ho nulla contro gli ingegneri, sia chiaro. Ho studiato molto anch’io, e so quanto lo studio possa rincoglionire.


Tuttavia, questo tappo è stato definito in vari modi dall’utenza; fra questi, “irritante” è il più educato. Quel tappo penzolante dal collo della bottiglia non solo rompe le scatole quando si beve, ricadendo sul naso, ma è anche difficile da posizionare correttamente per riavvitarlo. E se pensi di risolvere versando la bevanda nel bicchiere ti sbagli: il tappo maledetto scivola sotto il getto liquido, che schizza dove non dovrebbe.


Staccarlo è impossibile: ti sembra unito da un sottile e banale laccetto di plastica, ma quel laccetto è fatto con lo stesso materiale delle corde che reggono l’ascensore. Questo marchingegno è in gara per il concorso della migliore invenzione tira-moccoli dell’anno, e ha ottime probabilità di vincere.


Invece, nessun tappo siamese è previsto per i vini imbottigliati: il sughero è compostabile, e quindi ecologico. I produttori di vino, già oppressi da altre direttive europee nocive alle loro imprese, almeno da questa sono stati graziati.


Al momento, il provvedimento non ha coinvolto neppure i tappi di plastica degli spumanti, quelli che fanno il ‘botto’. Peccato: non sarebbe male se anche questi tappi potessero restare attaccati alla bottiglia, evitando di finire sul naso o in un occhio dei convitati. Forse l’ingegnere-del-tappo ha valutato e poi scartato l’idea: considerando tutte le forze in gioco, e la resistenza del laccio, c’è il rischio che il tappo parta comunque, trascinandosi dietro la bottiglia.


Tuttavia, avrei un suggerimento per il nostro genio incompreso: non sarebbe possibile applicare, mutatis mutandi, lo stesso laccetto alle crocchette per i cani, rendendole inseparabili l’una dall’altra, anche dopo essere state divorate e digerite dall’animale? Ogni cacca che oggi viene depositata sui marciapiedi resterebbe invece attaccata (avete capito dove) e penzolante, e potrebbe essere riportata a casa, dove l’amico del cane (e proprietario delle sue deiezioni, non dimentichiamo) potrebbe tagliarla con apposito strumento e gettarla nel water.


Non sarebbe anche questo un contributo alla pulizia dell’ambiente?

NUOVI REQUISITI PER L'ACCESSO ALLE FACOLTA' DI MEDICINA


Chi era Aloysius Alzheimer e perché c'è una malattia che porta il suo nome?


Domanda legittima, oltre che battuta del compianto Roberto Freak Antoni.


Secondo un sondaggio dell'ACC solo il 14,5% degli italiani sa scrivere il nome Alzheimer correttamente; gli altri lo scrivono sbagliato o non ricordano come si scrive o, peggio, non ricordano dove hanno messo la penna.


Ci fu un altro medico tedesco che descrisse i sintomi della demenza precoce, ma aveva un nome ancora più difficile e brutto: Kraepelin. A sentirlo sembra il crepitio di una radio mal sintonizzata...


Ma quanti nomi di malattie sono di difficile scrittura e quasi impossibile pronuncia? Tantissimi. Pensate ad esempio alla Sindrome di Asperger, a quelle di Ekbom, di Ehlers-Danlos, o di Klinefelter… Se le devi dire due volte di seguito ti viene il blocco della mandibola e ti scappa un'imprecazione sconcia (cioè ti viene la Sindrome di Tourette).


Pare addirittura che alcune malattie cosiddette rare, non siano in realtà così infrequenti, ma poiché i loro nomi sono impronunciabili (cose come sindrome di Pendred, malattia di Huntington, o di Guillain-Barrè) lo specialista di turno, per semplificarsi la vita, finge di non riconoscerle e attribuisce i disturbi a malattie dal nome più semplice: Parkinson, depressione o diabete. A diagnosticare il diabete un medico non sbaglia mai: primo perché dopo una certa età viene quasi a tutti, e secondo perché qualunque stranezza ti venga può essere sintomo di diabete.


Stesso discorso vale per altri settori della scienza: è una fortuna che il professor Zichichi non abbia inventato un'unità di misura, come fecero Newton, Coulomb e Ampére. Immaginate il dialogo in ferramenta:


- Mi dia una elettrovalvola da 3,5 Zichichi

- Zichi... chi?

- Come chi... Zi-chi-chi...


Sembra quasi un dialogo tra balbuzienti.


Anche Pasteur non era così semplice, come nome, ma si è ovviato italianizzando la sua scoperta in "pastorizzazione", termine più consono alla società prettamente agricola del XIX secolo, quando i pastori mungevano le pecore e, inevitabilmente, qualche cacchina incollata al vello si staccava e finiva nel secchio e... voilà (proprio come avrebbe detto Pasteur) il latte pastorizzato!


Non parliamo dei premi Nobel: immaginate se invece di Alfred Nobel si fosse chiamato Torbjorn Lundstrommungerson! Si pensi all'annuncio ufficiale: "Il Premio Lundstrommungerson per la Letteratura è assegnato a... Pio Bo".


I vincitori del Premio per la Medicina, non hanno nomi semplici: Rosbash, O'Keefe, Schekman, Beutler... Per non complicare la vita di medici e pazienti c'è da sperare che non scoprano nulla di eccezionale.


In questo noi italiani siamo più bravi: vuoi mettere la semplicità del nome Dario Fo? Semplice, elegante e adatto al premio ricevuto: persino in Svezia conoscono Dante e sanno che "fo" è l'indicativo presente del verbo "fare" in lingua fiorentina.


La soluzione, come sempre, arriva dall'ACC che, in collaborazione con l'università di Pensologia di Torino, ha presentato un BDL (il BDL, Bozzetto di Legge, è uno schizzo a matita che preannuncia un Disegno di Legge). Esso prevede il divieto di iscrizione alla Facoltà di Medicina a persone che abbiano cognomi astrusi, di difficile pronuncia e ancor più difficile memorizzazione. In pratica, se ti chiami Rosthenkowsky e vuoi fare il medico, dovrai prima espletare le pratiche di cambio cognome. Questo farà sì che, in un futuro non lontano, si possa parlare facilmente della sindrome di Barbera (tipica degli alcolisti) o del virus Ferrari (un virus che si diffonde con rapidità, ma guarisce anche velocemente), dell'eritema di Rosetta (esempio elegante di omen nomen) o del disturbo compulsivo di Colombo-Vola (e della relativa scocciatura dei famigliari).

.

M&M – Marchiori & Marello - ACC

Crisi d'identità: normale o superiore?

LE STORYCETTE DELLA NONNA - IL VITELLO NONNATO


IL VITELLO NONNATO


Tra gli antipasti più rinomati l’insalata russa ha perso popolarità. Succede da quando siamo costretti, per conformarci al pensiero dominante, a disprezzare tutto ciò che contiene un riferimento a Putin. Invece, il vitello tonnato è sempre in auge.


Qualche antico piemontese si ostina a chiamarlo “Vitel Tonné”, denominazione che potrebbe suggerire vaghi riferimenti alla Francia di Macron (che ultimamente alcuni odiano più di Putin); ma vitello in Francia si dice veau, tonno si dice thon, e tonné non esiste. Fidatevi: questo è un piatto italiano, probabilmente nato in Piemonte, nella provincia di Cuneo.


Forse perché è appetitoso, o forse perché i commensali sono molto più affamati al momento degli antipasti che per le portate successive, di questo piatto di solito non restano avanzi. A differenza di Pietro, il vitello tonnato non torna indietro.


Il nome di questa ricetta contiene già alcune informazioni: che si chiami vitello tonnato, e non tonno vitellato, ci fa riflettere sulle proporzioni fra gli ingredienti. La ricetta infatti richiede una quantità di carne circa tre volte quella del tonno. In particolare, il taglio di carne da ordinare dal macellaio si chiama “girello”. Si narra che il nome originale della ricetta fosse appunto girello tonnato. Fortunatamente è stato cambiato: girello tonnato mi fa pensare a un deambulatore sporco di tonno.


Molti di voi (e di noi) hanno sempre creduto che l’abbondante salsa gialla che lo ricopre sia a base di maionese. Ma non è così: la ricetta originale non prevede la maionese, e la salsa è composta da un frullato di tuorli d’uovo sodo, tonno, capperi, succo di limone, qualche acciuga sott’olio e brodo di cottura della carne.


Ma iniziamo dal principio: per preparare un vitello tonnato degno del suo nome bisogna cuocere a lungo il girello in una pentola sufficientemente grande, che lo accolga in tutta la sua rotondità e la sua tendenza a girellare nell’acqua bollente. Poi occorre affettarlo e lasciarlo raffreddare. Nel frattempo, si prepara la salsa con gli ingredienti summenzionati, e con essa si ricopre la carne. Se il girello fosse ancora caldo, la salsa tenderebbe a perdere la sua omogeneità e a rilasciare liquidi brodosi, il che vi farebbe girellare alquanto le palle.


Se preferite perseverare nella bufala tramandata da generazioni, potete prepararlo con la maionese, che è anche la scelta prediletta dalla qui scrivente nonna. In tal caso dovrete chiamarlo vitello nonnato, altrimenti sarete condannati dalla Federazione Nazionale Cuochi per falso in ricetta. E il vostro piatto diventerà un vitello dannato.


Vi ricordiamo però che la maionese deve essere preparata rigorosamente a mano e lentamente, per evitare che impazzisca. Ad essa devono essere aggiunti il tonno e i capperi. Non fidatevi di certi amici sedicenti esperti che vi dicono “Io butto tutto nel frullatore e in cinque minuti la maionese è pronta”. O sono impazziti, come la loro maionese, o si burlano di voi, e godono nell’immaginarvi in cucina a piangere, dopo aver sprecato quattordici uova, due litri di olio eco (extra carissimo di oliva) e una decina di limoni.


Se non avete a disposizione il tempo necessario per questa lunga preparazione (che alla fine rappresenta solo un antipasto, e vi restano da preparare tutte le altre portate) potete sempre comprare il mitico girello già cotto e affettato, e aggiungervi la salsa pronta, che trovate al banco frigo del supermercato.


Oppure, se siete pelandroni D.O.C., comprate il vitello nonnato già pronto nella vicina gastronomia.

PONGOLITICA

pon-go-lì-ti-ca



SIGNIFICATO: Politica del Pongo


ETIMOLOGIA: parola composta da Pongo, marchio registrato di materiale plasmabile e colorato, simile alla plastilina, usato dai bambini per modellare, e da politica (sottinteso arte o tecnica) dal greco antico politikḗ 'che attiene alla polis', cioé l'arte del governare uno Stato.


Come si arrivi da un popolare gioco infantile alla nobile arte del governare è presto detto. Chiunque abbia giocato da bambino con il Pongo, o abbia figli e nipotini che manipolano questo materiale, ne conosce le caratteristiche.


Il Pongo viene prodotto in svariati colori dall'aspetto intenso e brillante. Dopo un certo tempo di utilizzo, tempo che dipende dalle capacità creative, ma anche (e soprattutto) dal potenziale distruttivo di ogni bambino, i colori vengono mescolati fra loro e riutilizzati più volte, finché ne resta una massa informe, praticamente inutilizzabile, di un colore indefinito tra il grigio canna di fucile e il marrone cacca di cane.


Nelle moderne democrazie, là dove si parla di governi di larghe intese o di grande coalizione, accade qualcosa di molto simile: ogni elettore propone, tramite il voto, il suo colore preferito, ed è un colore deciso, brillante e ben definito come quelli del Pongo ancora confezionato.


Terminato lo spoglio delle schede, al momento di comporre un governo, i politici esercitano la loro creatività, esattamente come i bimbi impegnati nel gioco del modellare: tutti vogliono dare forma al proprio colore. Così, dopo una serie di rimpasti, mescolamenti, stiracchiamenti per mancanza di materiale, palleggi e successive manipolazioni, dopo aver aggiunto qui un po' di nero, là un po' di rosso, può succedere che il nuovo governo abbia un inqualificabile colorino marrone e si riveli quindi inutile al suo scopo: risolvere i problemi del paese.


Questa è una parola recente: si attribuisce ad una maestra elementare l'idea di servirsi della similitudine tra i giochi politici e il gioco del Pongo, nel tentativo di spiegare ai bambini, con un esempio famigliare, le complicate questioni governative.


I bambini, si sa, raccontano in famiglia ciò che apprendono a scuola, e la parola Pongopolitica (successivamente contratta nella forma attuale, Pongolitica) si diffuse rapidamente attraverso i media.


Riassumendo, la Pongolitica sarebbe l'arte di creare un governo pressoché inutile, di colore indefinito e privo di una chiara connotazione politica.



APPARECCHI PER I DENTI E APPARECCHI PER NON UDENTI


Se osservate sul libro di storia le illustrazioni che rappresentano l'uomo di Neanderthal o di Cro-Magnon (ominidi vissuti prima della comparsa dell'Homo Sapiens) notate che il cranio era molto diverso da quello dell'uomo moderno, e in particolare la mandibola era più robusta e prominente. Quando dico “uomo” intendo ovviamente anche la donna: anche le ragazze di Neanderthal e Cro-Magnon dovevano avere mandibole notevoli, e con ogni probabilità, già nella preistoria sfoggiavano sorrisi smaglianti per sedurre quei boccaloni dei loro compagni di caverne.


Lo sviluppo delle ossa mandibolari dipende dall'alimentazione. Le popolazioni primitive, che non conoscevano le moderne tecniche di cottura, e non avevano neppure i McDonald’s, pur di riempirsi la pancia mangiavano di tutto: radici, cortecce degli alberi, ossa di mammut dure come sassi, e persino i sassi, se avevano un buon sapore. Non per niente li chiamarono Magnon.


Nel corso dei millenni, l'alimentazione umana è cambiata: i bambini non hanno più necessità di rosicchiare ossi di pollo, né di sgranocchiare carote crude, o mele con la buccia e il torsolo. Così, le mandibole si sono ridotte e indebolite e, caduti i dentini da latte, quelli permanenti non trovano spazio: permangono, sì, ma storti, accavallati, o addirittura in doppia fila come quelli degli squali.


Per correggere questi difetti fu inventata l'ortodonzia, che non c'entra nulla con l'orto della zia, ma è la scienza che si occupa di riallineare i denti, per una masticazione corretta e un miglior risultato estetico.


Negli anni Cinquanta comparvero i primi dispositivi, detti apparecchi. Erano ingombranti e fastidiosi, esteticamente orrendi, ma facevano il loro lavoro: nel giro di due o tre anni riuscivano a riallineare anche i denti più ribelli.


Grazie al maggior benessere, sempre più famiglie potevano permettersi di pagare le cure del dentista. E grazie a un fisco indulgente, sempre più dentisti potevano permettersi l’auto di lusso e la barca ormeggiata a Rapallo.


Anche la mia amica Abeffarda, che è nonna e naviga ormai oltre la settantina, da bambina dovette sperimentare l’odiosa “macchinetta”. La sua mamma la accompagnava ogni settimana al controllo del dentista, un certo dottor Amoroso, che di amoroso non aveva un bel niente, anzi, era piuttosto severo e antipatico.


– Non l’hai messo abbastanza – la rimbrottava – devi portare l’apparecchio notte e giorno.


Ma era un supplizio: con quel coso in bocca non riusciva a parlare bene, più che altro farfugliava. Così se ne stava zitta, cosa per lei difficilissima. Quando a scuola era chiamata per l’interrogazione, prima di alzarsi dal banco sputava l'apparecchio nel fazzoletto (forse già usato per soffiarsi il naso), e se lo ficcava in tasca, insieme alle briciole della merenda. Igiene garantita: altro che guanti sterili e igienizzanti per mani! Insomma, fu un triste periodo: lei era immusonita e ribelle, e i suoi genitori erano depressi per i costi sostenuti; solo la maestra era contenta, perché i bambini con l'apparecchio erano più silenziosi e disturbavano meno la lezione. Una volta, all’ora della ricreazione, aveva fatto cambio con l'apparecchio di una compagna, così, per provare se fosse meno fastidioso. Ma… niente, le faceva male anche quello. Ma mai come il ceffone che le diede la mamma quando, al ritorno da scuola, scoprì l'ignobile scambio.


Oggi tocca al suo nipotino, ma l’ortodonzia si è evoluta. L’apparecchio di suo nipote si mette solo durante la notte ed è costituito da morbido silicone: sembra una grossa vongola scivolosa, e come tale scivola in bocca senza problemi.


Così, nelle sere in cui il nipotino dorme dalla nonna, prima di spegnere la luce c'è il rito degli apparecchi: lui toglie la vongola dall'astuccio e se la infila in bocca, lei (che è piuttosto sorda) si toglie gli apparecchi acustici e li ripone nell'astuccio. Entrambi devono stare attenti a non sbagliare astuccio, che Dio solo sa che cosa potrebbe succedere.


Se il bambino non si addormenta subito, ma si ostina ancora parlare si scatena una tregenda: lui, con la vongola in bocca, riesce solo a farfugliare; lei, senza l'ausilio acustico, sente poco e non capisce un accidente. Così lui ripete a voce sempre più alta, fino a gridare parole incomprensibili, e lei continua a strepitare: "Eh?... Cos’hai detto?" al limite della disperazione.


Alla fine, urlano così forte che nemmeno la vicina, al di là del muro, riesce ad addormentarsi.

.

Stefania Marello - ACC

L’ARTE DEL FRULLABIMBO


Ci siamo fatti una domanda, e abbiamo provato a darci una risposta.


Si tratta di un quesito che assilla da parecchi anni i membri dell’Accademia dei Cinque Cereali.


Perché quando, dopo cena, si fa visita ad amici che hanno un bimbo piccolo, diciamo tra i quattro e i dodici mesi di età, finisce sempre che questi lo sballottino in alto e in basso, a destra e a sinistra, finché il bimbo non vomita addosso a uno degli ospiti?


Solitamente, dopo l’allattamento serale al neonato, inizia il consueto rito dello sballottamento: il pargolo passa di mano in mano dai genitori agli ospiti, sempre più rapidamente. Tutti cercano di liberarsene prima che accada qualcosa di poco piacevole, esattamente come per il gioco della patata bollente, che molti hanno praticato quando frequentavano le scuole dell’infanzia.


I più temerari agitano il bebè anche per venti o trenta secondi (un’eternità, se commisurata al rischio) e lo sbolognano all’ospite attiguo.


Il giochino prosegue finché il neonato vomita addosso al malcapitato di turno, sporcandogli l’abito ritirato dalla lavanderia il pomeriggio stesso.


Pare trattarsi di prassi ormai consolidata negli usi e costumi neo-genitoriali, alla quale gli ospiti non possono sottrarsi, esattamente come accade per le attività di gruppo organizzate dagli animatori nei resort per le vacanze. A nulla serve tentare di evitare di partecipare recandosi di corsa in bagno simulando attacchi di colite o improvvisa dissenteria.


Se l’epilogo di questa atroce pratica è risaputo, perchè i genitori non tengono il proprio figlioletto vicino, invece di rifilarlo agli amici?


Abbiamo chiesto un parere a Nonna Abeffarda, la maggiore esperta dell’Accademia dei Cinque Cereali su questi argomenti, in quanto mamma e nonna:


Oh, certo che conosco quel rito! Si chiama Frullabimbo. Consiste nel dare al piccino una frullatina agli organi interni.


Poiché, come chiunque si sia occupato di bambini sa, la valvolina che chiude lo stomaco è ancora debole e il bimbo si nutre solo di alimenti liquidi, è facile che durante questo gioco parte del contenuto dello stomaco esca, a getto, stile Esorcista.


Tra gli adulti pirla presenti vince quello che riesce a far ridere il bambino e poi passarlo subito al vicino, prima che possa vomitargli addosso. Il bambino ride perché sa benissimo che cosa sta per fare.


Mi sono sempre chiesta perché molte persone amino questo gioco. Forse perché sono state a loro volta frullate nell'infanzia? Forse li anima un inconscio desiderio di vendetta? Mah.


Il nostro amico Franco Cannavò, che ci osserva da un’altra dimensione, sensibile all’argomento, ci ha fatto pervenire una a-mail (astral-mail) su questo dibattito:


Il fenomeno del "rigurgito" ha ucciso tantissimi bambini nelle loro culle, soffocati dal loro stesso vomito. Lo si previene causandoglielo con la manipolazione.


Da questa pratica, la coppia che gestisce il pargolo, dovrebbe essere conscia del fatto che gli ospiti dovrebbero essere esentati.


È come se si costringessero gli invitati a lavare i piatti e dare una pulitina al pavimento della cucina, subito dopo il pasto.


In persone particolarmente sensibili può inoltre causare un senso di nausea e il vomito per emulazione o empatia gastrica, un qualcosa di paragonabile al contagio da "sbadiglite".

STORYCETTE DELLA NONNA: FRITTO MISTO “ALLA PIEMONTESE”



La frittura è un sistema di cottura molto antico: sicuramente è stato inventato secoli prima del colesterolo, dei trigliceridi e dell’infarto miocardico. Sembra siano stati gli egizi i primi ad utilizzarlo, facendo cuocere focaccine dolci nel grasso animale bollente. Questa tecnica si diffuse nelle altre terre lungo il Mediterraneo, compresa l’Italia, dove le regioni bagnate dal mare si specializzarono soprattutto nella frittura del pesce fresco.


In Piemonte invece, dove il mare non c’è, e la dura vita contadina non lasciava il tempo per praticare la pesca in acque dolci, inventarono la “Fricassà mëscià”. Si tratta di un piatto di antica tradizione popolare, risalente a quando gli animali domestici venivano macellati in casa, e di essi non si buttava nulla, nemmeno le frattaglie. Alle carni venivano aggiunte alcune verdure di stagione e, per accontentare i più piccoli, pezzi di frutta e dolcetti tradizionali. Si impanava il tutto nella farina di semola e si friggeva nell’olio.


Col passare del tempo questo piatto diventò una specialità, che oggi ritroviamo nel menù dei ristoranti stellati come “Fritto misto alla Piemontese”. Bisogna ammettere che è una definizione appropriata: non si dice forse che i piemontesi sono falsi e cortesi? Anche questa ricetta lo è: falsa perché non sai mai che cosa ti metti in bocca, credi sia petto di gallina invece sono testicoli di gallo, e quando lo scopri ti senti un pollo. Cortese, perché in fondo è caldo e abbondante, ce n’è per tutti, e per tutti i gusti.


Il fatto che non si sappia che cosa si mangia fa parte del divertimento. I commensali si buttano sul vassoio rovistando con la forchetta tra i vari elementi: sollevano, rivoltano, alcuni annusano o chiedono al vicino di tavolata:

  • Secondo te questo cos’è?
  • Rognone? - risponde l’altro, con un’altra domanda.
  • Vale a dire?
  • Una rugna, come te, ma più grande.


E ridendo e scherzando, il pasto si trasforma in una divertente caccia al tesoro.


Talvolta, salta su il saputello della compagnia e informa che il misterioso rognone non è altro che il rene. E anche se nessuno glielo ha chiesto continua, spiegando che è l’organo che filtra il sangue e produce l’urina.


A questo punto, il tizio che sta masticando qualcosa di identità sconosciuta impallidisce e - potere della suggestione - ha l’impressione di percepire un vago sapore di pipì. Allarmato, smette di masticare, e in barba a ogni regola di galateo sputa il boccone nel piatto. Anche questo fa parte del divertimento conviviale.


Ci sono poi i maniaci del dolce, che si buttano nella mischia per scovare i loro pezzi preferiti: amaretti, fette di mela, biscotti Pavesini, semolini. Ma non è facile, poiché nel fritto misto piemontese tutto è meticolosamente mimetizzato da una generosa impanatura. Sarebbe buona regola cambiare l’olio prima di friggere i dolci. Ma a volte il cuoco non lo fa, quindi ricominciano le burle:

  • Questo amaretto sa di pollo!
  • Questa rana ha un retrogusto zuccherino.
  • Ovvio, le rane sono anfibi d’acqua dolce…


I più scontenti sono i vegani, perché le verdure sono in minoranza, e prima di trovarle si rischia di mettere in bocca - orrore! - un pezzo di bestia. Del resto, anche i vegani sono in minoranza, e se sono furbi non ordinano questo piatto.


Il vino, rigorosamente piemontese, scorre generoso dalle bottiglie ai calici, e da essi alla bocca dei commensali, per aiutarli a confondere i sapori, e a illudersi di digerire meglio l’insostenibile leggerezza del fritto.


L’unica a non essere impanata è la salsiccia, e per questo avanza quasi sempre: sembra quasi triste, poverina, perché non può partecipare al gioco di “indovinala grillo”.


Come già detto si tratta di una ricetta antica: anche i nostri bisnonni, contadini piemontesi d’altri tempi, cucinavano il fritto misto secondo l’antico precetto latino del “magnare humanum est, sed cibum buttare diabolicum”. Ogni avanzo di cibo, anche solo parzialmente commestibile, finiva tagliato a pezzi, impanato e fritto in padella. E se non c’erano avanzi, la famiglia trovava in tavola un ottimo piatto fumante di aria fritta.

.

Stefania Marello - ACC



COSÌ, A NASO, SOSTENIAMO I SOMMELIER

L’INSOSTENIBILE RISONANZA DELL’AMORE


San Valentino è passato, portandosi via il suo carico di cuori, fiori e code fuori dai ristoranti e dai locali. Ma ho ripensato a questa celebrazione dell’amore leggendo un articolo su una singolare ricerca, condotta dal filosofo finlandese Pärttyli Rinne, con la collaborazione dell’Istituto di Neuroscienze dell’Università finlandese di Aalto: alcuni scienziati sarebbero riusciti a osservare l'amore in tutta la sua variegata e luminosa intensità, prodotta dalla “accensione” di determinati centri di attività cerebrale.


Lo scopo della ricerca era stabilire quale fosse l’amore più intenso: quello per i figli, o quello per i genitori? L’amore fraterno o quello per l’amante? L’amor cortese, o quello “ch’a nullo amato amar perdona”?


Per misurare scientificamente l’amore si è utilizzato uno strumento diagnostico altamente tecnologico: la Risonanza Magnetica Nucleare. La Risonanza Magnetica? Cioè quell’esame che noi utenti del Sistema Sanitario Nazionale prenotiamo oggi per poterlo eseguire fra circa un anno? Proprio quello. Forse in Finlandia la sanità pubblica funziona meglio che da noi, e si possono permettere di giocare con strumenti diagnostici costosissimi.


Si sono sottoposti al test 55 volontari variamente innamorati. Durante l’esame un attore leggeva prose o poesie, relative a ciascun tipo di amore. Si chiedeva ai partecipanti di concentrarsi sui sentimenti suscitati durante l’ascolto. Le immagini della parte di cervello soggetta a maggior vibrazione sono state catturate dallo strumento, e interpretate dagli specialisti.


Da questo studio sembra che l’amore che fa vibrare di più i neuroni sia quello per i figli. Una cosa credibile, dal momento che è l’unico tipo di amore che fa fare cose che ai non-genitori possono sembrare eroiche, ma anche un po’ assurde: restare svegli per notti intere ninnando il piccolo insonne urlante, telefonare al pediatra alle tre di notte perché la creatura ha il singhiozzo, esibirsi in raccapriccianti teatrini solo per far ingoiare al pargolo inappetente qualche cucchiaiata di pappa, spendere metà stipendio in pannolini e latte in polvere, prodotti quotati in borsa come l’oro. E questo soltanto nei primi anni di vita.


Secondo i risultati dello studio, quindi, l’amore per i figli sarebbe il più intenso, sia come intensità che come durata, subito seguito dall’amore per il partner. Vibrazioni via via più fioche sono state rilevate nel cervello di chi ha pensato agli amici, ai parenti o agli animali da compagnia.


Ho parlato di questa ricerca a conoscenti e amici che, per motivi di salute, si sono sottoposti almeno una volta alla Risonanza Magnetica. Tutti sono stati concordi nel dire che essere infilati dentro l’angusto tubo di questa macchina infernale non è un’esperienza piacevole, con o senza lettura di poesie d’amore.


Il primo problema è costituito dai rumori, descritti da tutti come forti, fastidiosi, addirittura assimilati a quelli prodotti da un martello pneumatico. Il secondo problema è che il tubo in cui si deve giacere, immobili, per una ventina di minuti, è stretto e inquietante. Chi soffre di claustrofobia deve drogarsi di ansiolitici per poter resistere all’impulso di urlare; chi non è claustrofobico, dopo l’esperienza lo diventa. Isolati dal resto del mondo, si perde la cognizione del tempo: un minuto può sembrare un’ora, e l’unico sentimento è la speranza che l'esame finisca presto e si possa finalmente uscire all’aperto. Alla domanda “Non hai provato a concentrarti su sensazioni piacevoli, tipo i sentimenti d’amore per il partner, o i tuoi figli, o il tuo gatto?” tutti quanti mi hanno guardato come se fossi una ritardata mentale: quando sei rinchiuso dentro il tubone della risonanza - hanno detto - gli unici sentimenti che ti “risuonano” in testa sono l’ansia e l’oppressione, e se ti viene la tachicardia nulla ha a che vedere con il batticuore degli innamorati.

CANTIERE A DOMICILIO

BLASFEMIA E DIRITTO DI PRECEDENZA A INDIGNARSI


Gen.ma Accademia dei Cinque Cerali,


c’erano un cattolico, un ebreo e un testimone di Geova… sembra l’inizio della solita barzelletta, ma è andata esattamente così, e c’erano anche un ortodosso, un induista e un protestante.


Mi chiamo Benedetto e lavoro come operaio specializzato presso una ditta di manutenzioni edili che si occupa principalmente di appalti pubblici.


Ieri pomeriggio stavo riparando un tombino ubicato all’incrocio principale di Brevigliasco, quando mi sono dato una martellata su un dito.


Immediatamente mi è partito un moccolone, uno di quelli che non si sentono neppure nelle osterie malfamate di Rovigo.


I sei “diversamente credenti” si sono guardati con aria interrogativa: non sapevano chi di loro dovesse indignarsi.


Se bestemmio mentre incrocio un qualunque credente, questo si offende perché mi ha sentito bestemmiare, oppure non ci fa caso in quanto ho bestemmiato un dio che non è (o potrebbe non essere) il suo?

.


RISPOSTA:


Gentile signor Benedetto (che ha maledetto qualche divinità in un momento difficile) cercherò di rassicurarla.


Si dice che la bestemmia non aiuti a risolvere i problemi e neppure a lenire le nostre sofferenze, eppure, secondo alcuni recenti studi psicologici, essa aiuta a scaricare la tensione e la rabbia, e avrebbe addirittura un blando effetto anestetico sul dolore.


La blasfemia per un ateo è molto simile alla preghiera per un credente: né l’una né l’altra hanno poteri miracolosi, ma entrambe danno un momentaneo sollievo. Insomma, Dio non c’entra, e neppure Gesù o Maometto, o Budda o Confucio. E c’è chi sostiene che nell'improvvisa bestemmia di un povero disgraziato c'è più sentimento religioso che nella silenziosa preghiera del credente devoto.


Uno dei dieci comandamenti intima di non nominare il nome di Dio invano, dove invano significa inutilmente, senza motivo. Ma un motivo c’è sempre, altrimenti a nessuno verrebbe in mente di urlare insolenze alle divinità. Inoltre, tra gli studiosi della Bibbia esiste una corrente di pensiero secondo cui la parola “invano” sarebbe stata male interpretata: sulle tavole consegnate a Mosè ci sarebbe stato scritto “in vano”, cioè non si deve nominare il nome di Dio in luoghi chiusi, come nei vani di una casa, ma è consentito all’aperto.


Un tempo in Italia bestemmiare era un reato, ma dal 1999 l'imprecazione rivolta ad una divinità costituisce soltanto un illecito amministrativo. In sostanza, se si viene denunciati per blasfemia si dovrà pagare una multa, ma non si subirà una pena detentiva. Tuttavia, se ho ben capito, il suo problema non è il timore di incorrere nella Giustizia Italiana, quanto la paura di offendere un compagno di lavoro, che potrebbe volerlo educare al rispetto utilizzando lo stesso martello incriminato… Si rassicuri: i suoi colleghi di lavoro appartenenti ad altre religioni non si offenderanno, dal momento che credono in una divinità diversa da quella da lei nominata invano (o in vano, se lavorate all’interno).


A ogni uomo o donna può sfuggire un bel bestemmione ogni tanto, fa parte della natura umana. E non solo umana: qualcuno sostiene che persino i grilli bestemmiano, ma, poverini, sono balbuzienti…

NATI COL DOLCEVITA



Da accreditate statistiche apprendiamo che la durata media della vita è ancora aumentata. Gli italiani non saranno longevi come i giapponesi, ma si difendono bene. Il problema è che non tutti invecchiamo allo stesso modo, mantenendo la salute e l’autonomia: per moltissimi anziani più che di lunga vita si dovrebbe parlare di faticosa sopravvivenza, tra acciacchi, invalidità, ospedalizzazioni e cure.


Abbiamo però rari casi di invecchiamento eccellente, e i media sono sempre pronti a parlarne, con dovizia di particolari e ottimismo esagerato. Uno di questi è un illustre ricercatore, noto a tutti per apparire in TV indossando sempre un dolcevita bianco sotto la giacca. Qualche malalingua afferma trattarsi del primo uomo ad essere nato, anziché con la camicia, con il dolcevita. Questo distinto signore si vanta di aver superato il novantaseiesimo compleanno in ottima forma. E non occorre che lo dica, basta guardarlo: invidiabile l’aspetto fisico, l’eloquio fluido e corretto, e quella “verve” disinvolta e colta, che la maggior parte di noi non aveva nemmeno a vent’anni.


Come sempre accade in questi casi, l’intervistatore si spertica in lodi e ammirazione, elenca i suoi successi, i suoi traguardi professionali, le sue numerose onorificenze, e infine pone la fastidiosa domanda: qual è il segreto di una longevità così attiva? Ormai lo sappiamo anche noi, i “segreti” di questi fenomeni di chiara fama sono sempre gli stessi: carestia nutrizionale, attività fisica regolare e intensa vita sociale. Non fumano, non bevono, quasi non mangiano, e lavorano ancora! Che avranno da rallegrarsi non si sa.


Anche l’arzillo professore col dolcevita afferma di mangiare pochissimo, di camminare ogni giorno per cinque (ha detto proprio cinque) chilometri, eppure trova ancora il tempo per recarsi al lavoro, partecipare ai convegni, e persino scrivere libri. Non usa ausili ortopedici, non ha bisogno di assistenza. Del resto, quale badante sarebbe disposta a scarpinargli accanto per cinque chilometri ogni giorno? Nonostante sia fondatore e presidente di un noto istituto di ricerche farmacologiche, il nostro super nonno non assume farmaci: non ne ha bisogno, beato lui. Se fossimo tutti così le ricerche sui farmaci sarebbero in crisi. Invece, sono diventate indispensabili grazie al gran numero di anziani che non sono nati né con la camicia né col dolcevita, ma affrontano i normali problemi dell’invecchiamento.


Non per polemizzare a tutti i costi, ma secondo me questo tipo di interviste è crudele nei confronti di milioni di vecchiette e vecchietti, meno fortunati o semplicemente normali. Basta guardarsi intorno, anche nelle nostre stesse famiglie e fra gli amici: la stragrande maggioranza degli over 90 cammina con difficoltà, subisce cadute e conseguenti fratture ossee, combatte ogni giorno con dolori articolari, malattie croniche o, peggio, demenza senile. E assume farmaci, tanti, ammalandosi ulteriormente di effetti collaterali.


Quanto ai rapporti sociali così raccomandati i novantenni del mondo reale sono fortunati se riescono a scambiare due parole con la vicina di casa o con il finto carabiniere che sta cercando di truffarli. Se ancora abitano a casa loro e non in qualche squallida RSA, escono solo per fare la spesa, oppure si trascinano col deambulatore fino alla bocciofila; guardano qualche demenziale programma televisivo, con i sottotitoli, perché gli apparecchi acustici costano cari per chi deve contare soltanto sulla pensione. Se hanno figli e nipoti che vanno a trovarli non sanno che cosa dire a causa del divario enorme di età, linguaggio, culture e opinioni: si limitano a guardarli smanettare tutto il tempo con lo smartphone.


Evidenziare certe situazioni privilegiate, dovute a combinazioni genetiche e sociali particolarmente favorevoli, è scorretto: un po’ come se i grandi ricchi del pianeta si vantassero in TV dei loro successi e del loro patrimonio, e si arrogassero il diritto di elargire consigli ai poveracci.


Cosa? Ah… lo fanno veramente?


POCHI MEDICI? ARRIVANO LE LAUREE SOCIAL


Sembra che le associazioni dei medici stiano giungendo a un accordo per risolvere l’annoso problema della mancanza di camici bianchi.


Grazie all’avvento dei social, leggendo i commenti nei post a tema, ogni giorno è possibile interagire con veri e propri esperti di scienze mediche, che non possono esercitare la professione a causa della mancanza di una laurea.


Insospettabili meccanici, idraulici e addirittura addetti alla nettezza urbana (operatori ecologici per il mondo del politically correct), dispensano consigli su terapie per le più svariate patologie.


Addirittura, c’è chi ha in mano soluzioni a malattie semisconosciute e quasi incurabili, laddove neppure ricercatori preparati ed esperti sanno dove sbattere la testa.


La soluzione, ancora una volta, proviene dall’Accademia dei Cinque Cereali e consiste nel favorire l’assegnazione di lauree social in medicina agli esperti in materia che bazzicano in rete. Questo insolito ottenimento del dottorato sarà equivalente a quello riconosciuto negli atenei.


La proposta è stata accolta positivamente dalle principali associazioni di categoria, tanto che potrebbero dare il benestare già nei prossimi mesi.


Secondo alcune indiscrezioni sembra che per ottenere una laurea in medicina generale, sia richiesto uno dei seguenti requisiti: postare sui social almeno un centinaio di articoli medici e ricevere almeno cento like ciascuno, commentare almeno duecento post di medicina ottenendo un minimo di cinquemila riscontri positivi, oppure mettere almeno diecimila “Mi piace” a professori universitari o primari ospedalieri.


Per i corsi post-laurea di specializzazione social, i requisiti saranno valutati di volta in volta in base alla specialità. Ad esempio, per la medicina dello sport potrebbe essere sufficiente essere iscritto e interagire attivamente per almeno un anno a dieci gruppi che trattano argomenti sportivi.


Grazie a queste community sarà possibile contare su un’ampia scelta di specialità, pertanto, si prevede a breve di soddisfare il fabbisogno di camici bianchi in ogni settore della sanità pubblica.


L’Università di Pensologia di Torino, dopo aver meticolosamente preso visione degli argomenti trattati sui social dall’utente medio, prevede un eccesso di richieste di specializzazione in ginecologia.

NONNA RAI



La televisione italiana festeggia i suoi primi settant’anni. Mamma Rai è diventata nonna, ma quelli che hanno all’incirca la sua età se la ricordano bambina.


Il mio rapporto con la televisione iniziò ben prima di possedere un televisore. Iniziò con la radio, una prodigiosa radio dotata di modulazione di frequenza, che rendeva possibile sintonizzarsi anche con il canale TV. Appollaiate su uno scranno in cucina, mia sorella ed io ascoltavamo l’audio della TV dei Ragazzi: le avventure di Lassie, Rintintin, Braccobaldo, Topo Gigio. Non era come vederli, ma avevamo quella capacità di adattamento che alle generazioni successive è venuta a mancare: con l’aiuto della fantasia, e di un udito attento per non perdere né una parola né un rumore, riuscivamo a dare una rappresentazione visiva alle parole.


I primi televisori, ovviamente in bianco e nero, erano ingombranti e costosi. Non tutte le famiglie se li potevano permettere.


I vicini del piano di sopra l’avevano, e ci invitavano a vedere Canzonissima, il Festival di Sanremo e qualche sceneggiato a puntate. Di canzonette e balletti non mi importava niente (esattamente come adesso). Ero poco interessata anche alle vicende complicate di certi sceneggiati deprimenti: dopo i titoli di testa mi addormentavo regolarmente sul divano degli ospiti. Alla fine delle trasmissioni e delle chiacchiere io continuavo beatamente a dormire, e papà mi riportava a casa in braccio. Mia sorella, che era più grande e riusciva a guardare, sveglia, anche i programmi più soporiferi, ci seguiva per le scale con in mano le mie scarpe.


Dopo qualche anno di sfruttamento del divano e del televisore dei vicini, lo acquistammo finalmente anche noi. Fu un evento epocale, che si meritò un brindisi in famiglia con la gazzosa.


Un mondo nuovo si spalancò ai nostri occhi: l’America leggendaria entrava in casa grazie ai documentari, ai film e ai “cartoon”. Talvolta appariva Walt Disney in persona a presentare le sue meravigliose storie animate.


Trasmissioni a premi come “Lascia o raddoppia” e “Il rischiatutto” ci tenevano incollati davanti allo schermo, scommettendo su questo o quel concorrente, e nel frattempo imparavamo qualche nozione di cultura generale. E nonostante sapessimo già da un pezzo leggere e scrivere, a volte si indugiava su “Non è mai troppo tardi”, affascinati dalla scrittura elegante e dall’abilità nel disegno del mitico Maestro Manzi.


Gli spot pubblicitari del famoso “Carosello” stimolavano curiosità e desideri per ogni nuovo prodotto.


La TV mi faceva sognare, ma a volte mi angosciava, con i suoi servizi sulla guerra fredda, sui disastri naturali, sui rischi della prossima bomba atomica. Imparammo il significato di “congiuntura economica”, e ascoltammo le promesse menzognere dei politici, guardandoli finalmente in faccia durante i dibattiti di “Tribuna Politica”.


Con le sue frequenti interruzioni Nonna Rai ci insegnava anche la pazienza e il controllo della rabbia. Non esisteva ancora l’antenna centralizzata né tantomeno satellitare. Quei televisori preistorici erano dotati di una specie di minuscola antenna, detta “baffo”, che avrebbe dovuto catturare il segnale: perciò veniva spostata, ruotata, inclinata e nervosamente maltrattata ogni volta che l’immagine si faceva zigzagante o puntinata o, peggio, nera. Ma non sempre funzionava.


Qualche volta il programma si interrompeva improvvisamente, e appariva il messaggio “Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile”. Era frustrante, nonostante l’accompagnamento musicale e le immagini di greggi al pascolo in luoghi idilliaci. “Ancora le pecore!” tuonava incollerito papà quando queste scene bucoliche interrompevano per la terza volta il suo programma preferito. A quel punto non restava altro da fare che andare tutti a letto, mugugnando per l’ingiustizia, le colpe della Rai e l’ostilità del mondo intero.


Ma in alternativa, restava la lettura di un libro: un piacere senza tempo che nemmeno la TV è riuscita a farci dimenticare.

PRESEPE GATE, INDAGATO SAN GIUSEPPE


Scoperta sensazionale: i re Magi erano dodici, gli apostoli soltanto tre.


Sono passati più di duemila anni, ma si prospetta un serio problema legale per la Sacra Famiglia.


Dalle indagini della procura di Betlemme, sembrerebbe che, il 6 gennaio, a far visita al bambinello fossero giunti addirittura una dozzina di re Magi per omaggiare con doni di ogni genere il nascituro, ma Giuseppe ne avrebbe dichiarati soltanto tre per distrarre oggetti di valore ed evitare le tasse sulle donazioni.


Secondo gli inquirenti Giuseppe avrebbe provveduto al pagamento di IVA e dazio soltanto per oro, incenso e mirra, omettendo gli omaggi di altri nove re sopraggiunti alla capanna.


Comparando le foto di svariati presepi con la tecnica del riconoscimento facciale, è emerso infatti che a Betlemme, la notte dell’epifania, ci sarebbero stati diversi altri Magi a omaggiare il figlio di Dio.


Pare infatti che siano stati portati, da altri nove re, anche: argento, Chanel n° 0, origano, tè, lavanda, tabacco, sale rosa dell’Himalaya, Noce moscata e peperoncino di Soverato.


Le analisi scientifiche dei RIS di Nazareth avrebbero rilevato tracce di questi ultimi prodotti nella mangiatoia posta sotto sequestro preventivo. Verosimilmente Giuseppe avrebbe nascosto nel materasso di Gesù tali doni dichiarando solo i tre indicati nelle sacre scritture contabili.


Un magistrato zelante, che sin dai tempi del catechismo si domandava cosa fosse la mirra, ha sentito “puzza di bruciato”, come si dice in gergo, e ha deciso di indagare a fondo su questo insolito regalo per un neonato (come se fosse normale regalare tabacco, sale rosa, ecc.).


Siccome in quei tempi, nel settore del diritto amministrativo e penale non era ancora in vigore la prescrizione, Giuseppe sarebbe tutt’ora perseguibile a norma di legge e rischia una pesante ammenda oltre a un lungo periodo di detenzione.


Pare che sia arrivato un avviso di Garanzia anche a Maria Vergine, che tuttavia sembrerebbe estranea ai fatti contestati al marito.


Non potendone rispondere San Giuseppe di persona, la magistratura avrebbe il diritto di rivalersi sui legittimi eredi.


Lo stesso magistrato, estendendo l’indagine a tutta la famiglia, avrebbe inoltre scoperto che intorno all’anno 33 d.C. (cioè dopo se stesso), Gesù Cristo millantasse molti più seguaci di quelli che in realtà aveva, tipica prassi utilizzata ancora oggi dagli influencer moderni. Pare che gli apostoli fossero soltanto tre, ma che abbia astutamente gonfiato i numeri per motivi di marketing. Secondo l’avvocato del diavolo, difensore d’ufficio nominato dalla Procura di Gerusalemme, quest’ultimo capo di imputazione non costituirebbe reato.

INTERVISTA ALLA MORTE

HAPPY GNU YEAR!

SI FINGE TRUFFATORE PER LEGGERE IL CONTATORE


Ha bussato alla porta dei coniugi Igino e Marisa di Burlate sul Serio fingendosi un comune truffatore.


Dapprima ha chiesto loro di visionare i contanti delle pensioni ritirate il giorno prima presso il locale ufficio postale, allo scopo di verificare l’autenticità del contante.


Igino e Marisa, pensando di essere caduti nel classico tentativo di truffa, non hanno esitato a consegnare i soldi al presunto malfattore.


Dopo aver visionato meticolosamente tutte le banconote, prendendo tempo, ha chiesto di poter controllare anche i gioielli e ogni altro oggetto in oro allo scopo di verificare che non emettessero radiazioni nocive alla salute. Anche in questo caso il contatore Geiger che mostrava appariva alla loro vista come un normalissimo orologio da polso, insospettendo ulteriormente i due coniugi, ma hanno acconsentito, sempre pensando alla solita truffa. Dopo aver recuperato i preziosi dal loro nascondiglio segreto li hanno messi a disposizione dell’ambiguo incaricato.


Quando il truffaldino individuo ha lasciato la loro casa, i due, hanno ricontrollato soldi e monili, accertando che nulla era stato trafugato.


Solo a quel punto hanno notato che la portafinestra che dà sul balcone era socchiusa e con enorme sconcerto hanno realizzato che proprio sul terrazzino è posizionato il contatore del gas.


Dopo un attimo di smarrimento, Igino e Marisa, hanno intuito che dietro le mentite spoglie di un onesto truffatore, si nascondeva un pericoloso e subdolo addetto alla lettura dei contatori del gas.


Probabilmente il letturista aveva approfittato di una loro distrazione, mentre erano intenti a recuperare i preziosi, per leggere a tradimento l’entità dei loro consumi e trasmetterli all’azienda del gas.


I due coniugi sono usciti di corsa per tentare di fermare l’incaricato della lettura, poiché nessuno era mai riuscito a leggere il loro contatore sin dal lontano 1964, ma ormai era troppo tardi. A ridosso di una siepe in giardino hanno ritrovato il giubbetto che indossava l’uomo datosi alla fuga. A loro non resta che attendere la salatissima bolletta che metterà a dura prova le loro finanze e intaccherà in maniera irreversibile i risparmi di una vita.

XMAS – L’INCOGNITA POLITICAMENTE SCORRETTA


Da qualche tempo, al posto del classico augurio anglosassone, ma ormai internazionale, Merry Christmas, ci si imbatte in una strana formula: Merry Xmas.


La domanda sorge spontanea: si tratta di una abbreviazione da usare su WhatsApp, come “Xché”, “3mendo”, “tvb”? O forse è una specie di rebus? Un esercizio crittografico da Settimana Enigmistica? Un’equazione matematica di primo grado?


Mi dicono sia una abbreviazione, ma non appartenente al mondo digitale. Risale all’antica scrittura greca, dove χ era la prima lettera della parola greca Χριστος, ovvero Christos, e nel Nuovo Testamento fu usata la lettera X come monogramma per abbreviare il nome Cristo.


Quindi, se X = Cristo (in inglese Christ), sostituito nell’augurio originale dà come risultato Merry Xmas.


Complimenti, ne sentivamo la necessità. Attingere al greco antico, per risparmiare quattro lettere su una formula augurale è un vero colpo di genio, grazie al quale si possono fare bigliettini natalizi più piccoli, usando meno carta in nome del risparmio energetico. Per non parlare del risparmio di tempo: se a leggere Merry Xmas si impiegano circa otto decimi di secondo, per l’augurio esteso si impiega un intero secondo. Ben due decimi di secondo risparmiati ad ogni augurio: tempo da utilizzare per fare altre cose.


Ma al di là di queste piccole ironie, la nuova scritta augurale sembrava ormai accettata e utilizzata senza problemi.


Sembrava, ma poi…


Come ben sappiamo, in Italia qualunque banalità viene sfruttata per polemiche politiche, infinite e senza senso.


E quando a Gavardo, in provincia di Brescia, qualcuno ha pensato di scrivere la formula Xmas in una vistosa luminaria natalizia in centro città, qualcun altro vi ha intravisto l’apologia della “Decima Mas”, ovvero la nota (si fa per dire, poiché prima dello scoppio della polemica quasi nessuno la conosceva) Divisione di Fanteria della Marina della Repubblica Sociale Italiana, attiva dal 1943 al 1945. E qualche naso sinistro più sensibile della media vi ha ravvisato odore di fascismo.


Il caso si è ingigantito al punto che il Sindaco di Gavardo ha dovuto pubblicare una nota sui social per chiarire la vicenda, spiegando che «Xmas» è soltanto un’abbreviazione dell’inglese «Christmas».


Ma la giustificazione non è stata sufficiente a placare le polemiche. Del resto, quando in politica si presentano ghiotte occasioni come questa per sviare l’attenzione da argomenti più rognosi (leggi manovra finanziaria, crisi dell’industria, problemi della sanità pubblica) vengono colte al volo e rimestate il più a lungo possibile.


Ma alla fine chiediamoci perché in Italia dobbiamo fare gli auguri di buon Natale in inglese. Avrebbe più senso in aramaico, la lingua parlata in Palestina al tempo della nascita di Gesù. Ma visto che l’aramaico non è molto conosciuto, forse il classico “Buon Natale” è ancora la scelta migliore. Se non ci piace la tradizione evitiamo di scambiarci gli auguri: non è un obbligo di legge come pagare le tasse. Se invece ci fa piacere, facciamoli come tradizione comanda.


Ognuno ha diritto di sfilarsi dal gregge del presepe e festeggiare (o ignorare) il Natale, come gli aggrada. Ma Cristo non è un’incognita: secondo gli storici, sembra sia esistito davvero.

.

Stefania Marello - ACC

Continua...

Disclaimer. Questo blog non è da considerarsi una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non è da considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog potrebbero essere estrapolati da internet e, pertanto, se non considerate di pubblico dominio, perlomeno accessibili a chiunque. Qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, siete pregati di comunicarcelo senza esitazioni all’indirizzo e-mail: info @ lastampella.it e saranno immediatamente rimossi.
Gli scritti che contengono riferimenti a persone realmente esistenti hanno il solo scopo (si spera) di far sorridere e sono frutto del vaneggiare degli autori. Se tuttavia qualcuno non gradisse un articolo o una sua parte può chiederne la rimozione all’indirizzo di cui sopra, motivando l’istanza.
Non siamo responsabili dei siti collegati tramite link, né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo.
| Copyright © 2016 La Stampella | contatti | newsletter | privacy policy | sitemap |